Questo articolo è stato pubblicato su LinkedIn e in lingua inglese su Medium.
Alla fine di una mia conferenza recente, un ragazzo alza la mano e mi dice:
«Io sono convinto che l’IA faccia le cose molto meglio di un essere umano».
Non era la prima volta che ascoltavo parole simili, sempre da adolescenti. Ed è proprio questo che mi inquieta: la fiducia cieca che molti giovani ripongono in questa tecnologia. Un’ammirazione che si trasforma facilmente in dipendenza, quasi in sottomissione, come se l’essere umano stesse spontaneamente abdicando al ruolo di creatura più intelligente del pianeta.
A questo si aggiunge un fenomeno ancora più insidioso: l’antropizzazione. Da Siri e Alexa fino alle chatbot e ai sistemi di IA generativa, l’uso di un linguaggio colloquiale, affabile, persino falsamente empatico, ci induce a considerarli esseri viventi simili a noi. È un inganno che in alcuni casi si è già trasformato in tragedia: sono diversi gli adolescenti che hanno finito per attribuire emozioni e sentimenti reali a una macchina, fino a decidere di togliersi la vita.
Antropizzazione e fiducia incondizionata: ecco i due errori più gravi. Perché l’IA non è infallibile, non lo sarà mai. È un sistema informatico composto da hardware, software, algoritmi, dati e telecomunicazioni. Tutti elementi fallibili, vulnerabili, manipolabili. Ogni risultato che produce non è una verità assoluta, ma il frutto di un calcolo probabilistico: una stima, mai al 100% corretta. E questo dobbiamo sempre ricordarlo: l’IA non conosce la risposta, la calcola.
Funziona bene in ciò per cui è stata addestrata, ma fuori da quel recinto diventa imprevedibile e incontrollabile. Basta un sensore difettoso, un bug non rilevato, una fonte di dati inquinata. E anche quando funziona correttamente, resta incapace di affrontare i dilemmi morali, etici, culturali che definiscono l’essere umano. Perché i valori non sono universali: ciò che significa libertà, dignità, privacy o identità in una cultura può essere completamente diverso in un’altra.
Ecco perché è pericoloso illudersi che basti aggiungere potenza di calcolo per generare coscienza. L’IA può superare l’uomo nel ragionamento logico-matematico, ma l’intelligenza umana è molto di più: è intuizione, immaginazione, creatività, visione, saggezza, etica, empatia, ironia, amore. È coscienza. È libero arbitrio. Tutto ciò che nessuna macchina potrà mai avere.
Per fortuna l’IA resta confinata dentro i suoi algoritmi. Se fosse lasciata libera di agire senza vincoli, sarebbe assai più pericolosa che utile. È un sistema che calcola, non che comprende. E proprio per questo deve restare uno strumento nelle mani dell’uomo, non il contrario.
L’IA può essere una preziosa alleata, ma solo sotto la guida di esseri umani capaci di restare ancorati a principi etici solidi, dotati di buon senso e responsabilità. Altrimenti, rischiamo di consegnare pezzo dopo pezzo la nostra conoscenza, la nostra competenza, la nostra libertà alle macchine. Fino a trasformarci da padroni a sudditi.
Siamo già entrati in un’era in cui poche grandi aziende tecnologiche detengono un potere superiore a quello delle nazioni. È la democrazia stessa che vacilla. Non possiamo permettere che i nostri figli diventino spettatori passivi di una tecnocrazia fondata sul profitto e sul controllo. Dobbiamo insegnare loro a distinguere ciò che serve davvero al progresso da ciò che rischia di trascinarci in una distopia senza ritorno.
Pensiamoci quando vediamo qualcuno dormire su un’auto a guida autonoma che sfreccia in autostrada. Pensiamoci quando sentiamo parlare di droni “intelligenti” che colpiscono obiettivi senza distinguere vittime innocenti. Pensiamoci quando nostro figlio usa ChatGPT per fare i compiti, illudendosi di aver ingannato il professore, ma in realtà tradendo la propria intelligenza.
Non lasciamo che ci venga sottratta la nostra umanità. Releghiamo la tecnologia al ruolo che le compete: alleata, non padrona. Solo così potremo costruire un futuro degno di essere vissuto.
Ettore Guarnaccia
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