Questo articolo è stato pubblicato su LinkedIn e in lingua inglese su Medium.
“C’è una tragedia silenziosa che si sta sviluppando proprio ora, nelle nostre case, e riguarda i nostri gioielli più preziosi: i nostri figli.”
Così esordiva Victoria Prooday nel 2017, nel suo articolo The Silent Tragedy Affecting Today’s Children, letto da oltre trenta milioni di persone. Da terapista occupazionale a contatto con centinaia di bambini e famiglie, la Prooday stava osservando un aumento costante delle malattie mentali e un progressivo deterioramento dello stato emotivo dei più piccoli. Secondo lei, le cause andavano cercate nei fattori ambientali offerti dai genitori: distrazione digitale, babysitter tecnologiche, indulgenza eccessiva, mancanza di responsabilità, gratificazione istantanea, sonno insufficiente, alimentazione scorretta, vita sedentaria, stimolazione continua con dispositivi tecnologici e totale assenza di momenti di noia. In altre parole, i bambini stavano pagando la perdita di un’infanzia equilibrata con la moneta del loro benessere psicologico.
La cattiva notizia è che quell’allarme, così come quelli lanciati da molti altri psicologi e psicoterapeuti, è stato in gran parte ignorato. Da allora la situazione è peggiorata: tra i sedici milioni di italiani (uno su quattro!) che soffrono di disturbi psicologici di media o grave entità (Unicusano, Ministero della Salute e CEI, 2024), moltissimi sono giovani. Quasi il 50% dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni soffre di ansia e depressione (Censis, Consiglio Nazionale Giovani, Agenzia Nazionale Giovani, 2025). In Italia, un minore su cinque convive con un disturbo mentale diagnosticato (SINPIA), ovvero circa due milioni di bambini e adolescenti. Dopo la pandemia, i numeri sono cresciuti ancora: +25% di disagi psicologici, +30% di depressione e ansia, +40% di disturbi del comportamento alimentare, aumento significativo delle ideazioni suicidarie (Osservatorio Disturbi Emotivi e Mentali, State of Mind, 2025).
La buona notizia è che, come sostiene la Prooday, “nel momento in cui i genitori cambiano prospettiva educativa, anche i bambini cambiano”. E questo cambiamento può essere positivo.
Il percorso dalla fanciullezza alla piena maturità si sviluppa tra gli 11 e i 25 anni. In questo arco di tempo si formano identità, capacità, attitudini e schemi di pensiero che segneranno l’età adulta. È una fase di grandi trasformazioni psicologiche, neurologiche e sociali. La mielinizzazione e la potatura delle connessioni sinaptiche (pruning) dovrebbero rendere il cervello più efficiente, migliorando le funzioni cognitive. Ma se la crescita è segnata da stimolazioni digitali continue a scapito di esperienze concrete – gioco all’aperto, attività motorie e manuali, lettura, linguaggio, concentrazione e problem solving – il rischio è che si consolidino squilibri profondi e si generi dipendenza.
Oggi i campanelli d’allarme sono evidenti:
- Disturbi del sonno e stanchezza cronica, con due ore di riposo in meno rispetto a vent’anni fa, difficoltà ad addormentarsi e sonno disturbato. L’eccessivo uso di social e videogiochi è tra le cause principali (IPSICO, Bambino Gesù).
- Ansia, depressione, apatia, perdita di motivazione, disturbi alimentari e dismorfofobia, cresciuti drasticamente dal 2012, in parallelo alla diffusione di smartphone e social media (IPSICO, Istituto Mario Negri).
- Calo delle capacità cognitive: concentrazione, memoria e ascolto risultano compromessi, con un rendimento scolastico in discesa e un aumento dell’analfabetismo funzionale (IPSICO, Bambino Gesù).
- Isolamento sociale, rinuncia ad attività sportive e perdita di amicizie reali (Istituto Mario Negri, Bambino Gesù).
- Dipendenze multiple: social, videogiochi, alcol e sostanze. Crescono le difficoltà a distinguere realtà e immagini digitali manipolate, e i ragazzi ricercano approvazione costante online, con effetti devastanti sull’autostima (Istituto Mario Negri, ISP).
- Instabilità emotiva e comportamentale, con irritabilità, aggressività, autolesionismo e altri comportamenti a rischio, alimentati dall’iperstimolazione digitale (IPSICO, Bambino Gesù, Istituto Mario Negri).
Fino a una certa età, la responsabilità ricade soprattutto sui genitori. Ma non tutta la colpa è loro: gran parte dei comportamenti dipende dall’influsso pervasivo del digitale.
Alcuni studi tendono a scagionare la tecnologia senza però indicare alternative; molti altri invece individuano nei social, negli smartphone, nei videogiochi e ora nell’intelligenza artificiale i fattori che più incidono sulla salute mentale. Jonathan Haidt, psicologo sociale della New York University Stern School of Business, nel saggio La generazione ansiosa (2024) ha dimostrato che ansia, depressione, autolesionismo e difficoltà relazionali in preadolescenti e adolescenti sono strettamente legate all’uso intensivo di queste tecnologie.
La maturazione incompleta della corteccia prefrontale e del sistema limbico, continuamente sollecitati da gratificazioni artificiali, aumenta la vulnerabilità alla dipendenza. Studi recenti (Journal of Human Development and Capabilities, Sapiens Labs, MHQ) mostrano come l’accesso precoce agli smartphone – prima dei dodici anni – sia collegato a pensieri suicidari, aggressività, distacco dalla realtà, difficoltà nella regolazione emotiva e scarsa autostima.
Oggi la costruzione del sé avviene soprattutto sui social, dove si mostra ciò che si vorrebbe essere, non ciò che si è davvero. Questo alimenta emulazioni acritiche di trend effimeri e pericolosi, con conseguenze sulla reputazione personale e sulla percezione sociale. Tra i giovani si diffonde così l’individualismo, il culto dell’apparire, l’ansia di riconoscimento da parte di influencer e comunità virtuali. Si inseguono modelli irraggiungibili e mode che generano inadeguatezza, dipendenza digitale, isolamento sociale e paura del futuro.
Ma il dato più inquietante riguarda l’analfabetismo funzionale: l’incapacità di leggere e comprendere testi, fare calcoli semplici o sviluppare ragionamenti logici. Le prove INVALSI svolte negli istituti scolastici negli ultimi sette anni mostrano che solo uno studente su due raggiunge il livello minimo in italiano e matematica. Senza selezione né alla maturità né all’università, stiamo crescendo una generazione che rischia di non essere pronta ad affrontare la società.
L’incapacità linguistica e logica porta con sé la carenza di senso critico e l’incapacità di produrre un pensiero autonomo, senza il quale si è costretti a prendere in prestito il pensiero preparato da qualcun altro. Se prima questo pensiero pronto all’uso era prerogativa dei media mainstream, oggi l’IA generativa sta assumendo il ruolo di principale spacciatore di risposte, opinioni e concetti preconfezionati da somministrare ai tantissimi giovani utenti inconsapevoli. Diventa così sempre più facile manipolare e polarizzare il pensiero di miliardi di utenti in tutto il mondo attraverso una manciata di strumenti.
I rischi per la libera informazione, il pensiero autonomo, le libertà individuali, i diritti fondamentali dell’essere umano e, in ultima istanza, per la democrazia sono enormi. La direzione che stiamo percorrendo ci porta direttamente dalla tragedia silenziosa denunciata dalla Prooday all’idiocrazia digitale, una forma di degenerazione sociale e culturale causata dall’abuso inconsapevole e triviale della tecnologia digitale.
Da dove ripartire?
La prima risposta è la famiglia. Bisogna tornare a fare i genitori, non delegare il ruolo a babysitter digitali o intelligenze artificiali. Significa esserci davvero: osservare, dialogare, condividere. Non fare gli “amici” dei propri figli, ma porre limiti chiari. I ragazzi hanno bisogno di sperimentare la trasgressione per crescere; se tutto è permesso, la trasgressione diventa rischio.
Fondamentale è l’esempio: i bambini imitano i genitori. Se mamma e papà sono costantemente distratti dal telefono, i figli faranno lo stesso. Altrettanto importante è lasciare spazi di noia, momenti privi di stimoli in cui il pensiero può svilupparsi, emergono introspezione, creatività, sogni e motivazioni. Inoltre, sarà determinante allenare in loro il senso critico e la capacità di mettere in dubbio e verificare sempre ciò che viene loro raccontato.
Poi servono le istituzioni: governi, ministeri, scuole. La digitalizzazione spinta, trainata dalle multinazionali e accolta con entusiasmo dalla politica, deve essere accompagnata – anzi, preceduta – da programmi di educazione digitale. Occorre insegnare a usare dispositivi, social e IA in modo equilibrato, consapevole e responsabile. È altrettanto urgente formare i docenti, perché diventino promotori di una cultura digitale sana, basata sulla conoscenza dei meccanismi tecnologici e dei loro effetti sulla mente e sulla società.
“Dobbiamo cambiare la vita dei nostri figli prima che un’intera generazione finisca sotto farmaci! Non è ancora troppo tardi, ma presto lo sarà…”
Con queste parole chiudeva il suo articolo Victoria Prooday. Era il 2017. Oggi, otto anni dopo, la situazione non solo non è migliorata, ma peggiora di giorno in giorno. Ogni nuova tecnologia digitale viene lanciata al pubblico senza alcuna preparazione, e i rischi aumentano.
La domanda è inevitabile: siamo ancora in tempo?
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